Le spese militari nel mondo continuano a crescere in maniera significativa. Negli Stati Uniti superano i 600 miliardi di dollari nel 2016, rappresentando il 39% della spesa complessiva mondiale. Crescono anche le vendite di armi interne ai paesi e le esportazioni verso l’estero. Enorme, ma più difficile da censire rispetto ai dati, il traffico illegale di armi vendute in “nero”, oppure in ‘grigio’, traffico che avviene in forma non ufficiale con coperture fornite dai governi e/o attraverso vari canali trasversali in grado di aggirare le legislature d’origine. Aumentano anche i conflitti dichiarati o non dichiarati in forma ufficiale: gli eserciti delle grandi e piccole potenze si riarmano e si riorganizzano con nuove tecnologie preparandosi a eventuali conflitti su vasta scala che potrebbero vederli contrapposti frontalmente. La continua rincorsa non interessa esclusivamente i sistemi di tipo tradizionale o avanzato – guerra elettronica, droni, spionaggio – ma sta innescando una nuova proliferazione nucleare a tutti i livelli, in primis tra le grandi potenze, facendo crescere la tensione internazionale.
SPESA MILITARE E INDUSTRIA BELLICA
Per quanto riguarda l’Italia, la spesa militare dello Stato è quantificata in 64 milioni di euro al giorno. La corsa agli armamenti è continua, nonostante i proclami e i tagli annunciati: lo conferma per esempio la partecipazione ai progetti per la produzione dei caccia militari Eurofigther e F-35. L’industria bellica è considerata un asse portante dell’economia nazionale, così i governi e i poteri forti – le banche in particolare, agendo da finanziatori e da intermediari – sostengono l’industria militare. Nel corso degli anni le esportazioni hanno continuato a crescere, dirette nelle zone più calde, in particolare verso la penisola Arabica. Lo Stato Italiano interviene in prima persona sia come produttore di strumenti di morte, attraverso varie società controllate o partecipate a vario titolo, in tutti i settori: da Fincantieri a Leonardo – ex Finmeccanica, Alenia, Otomelara, ecc.- sia come promotore organizzando vetrine itineranti delle armi ‘Made in Italy’ sulla portaerei in giro per il mondo. Ma anche con tentativi di espansione verso il mercato estero, come l’acquisizione dei cantieri navali francesi STX. Una parte importante delle risorse è investita ai fini del controllo interno, rafforzando la sorveglianza video e telematica e potenziando la militarizzazione del territorio anche con il dispiegamento dell’esercito nelle strade.
LE INFRASTRUTTURE MILITARI
Tra le numerose basi militari dell’esercito disseminate nel paese, la Sardegna riveste una posizione particolare con oltre il 60% del totale e la presenza dei tre maggiori poligoni militari a livello europeo; significative anche quest’anno le proteste contro queste servitù che hanno portato morte, contaminazione, scempi ambientali ed un occupazione di fatto su un’area di 350 km quadrati. La presenza militare internazionale interessa, con le proprie basi e piste aereoportuali, tra le altre, varie località del nord est con la presenza diretta di ordigni nucleari – Aviano e Ghedi – oggetto di continui ampliamenti (Vicenza, Dal Molin), nonostante le proteste locali e non solo. Analoghe e inascoltate proteste interessano tuttora la Sicilia dove è da poco operativa la base statunitense per le comunicazioni satellitari militari – M.O.U.S. -, vero punto di snodo della politica imperiale, con significativi rischi derivanti dalle emissioni elettromagnetiche dell’impianto e gli immancabili scempi ambientali. Il sistema M.U.O.S. affianca e rafforza la già forte presenza militare USA nell’isola.
FORZE ARMATE
iDopo un cinquantennio trascorso a presidiare le frontiere orientali, alla fine del secolo scorso l’Italia ha preso la via dell’impegno militare offensivo, condotto inizialmente nell’area del Mediterraneo, per poi estendersi verso il Medio oriente, l’Africa ecc.
Alla base di questo radicale cambio di strategia il tracollo sovietico ed il disfacimento della Cortina di ferro, che mettevano gli Stati Uniti in grado di imporre il loro dominio militare, politico ed economico in aree geografiche sempre più vaste. Date la sua posizione geografica particolarmente strategica e la tradizionale subalternità agli interessi statunitensi, il nostro paese veniva quindi coinvolto direttamente nelle avventure militari dell’alleato americano.
Le forze armate italiane erano però a quell’epoca costituite da militari di leva obbligatoria che, alla prova dei primi interventi – missioni in Libano e Somalia -, si erano dimostrate praticamente inutilizzabili.
Veniva quindi approvata, nel 2000, la Legge 331 che prevedeva, nell’arco di 7 anni, la soppressione del servizio di leva obbligatorio, sostituendolo con una nuova forza armata costituita interamente da volontari, arruolati in servizio permanente oppure in ferma volontaria prefissata da 1 a 4 anni.
Oggi infatti la riforma delle forze armate ha quindi raggiunto l’obbiettivo prefissato:
– creare un nucleo costituito da reparti specializzati e bene armati composti da personale volontario a ferma permanente da impiegare all’estero insieme alle altre forze alleate.
– assorbire una parte non trascurabile della disoccupazione giovanile per brevi periodi come volontari a ferma prefissata – non più di 4 anni – da assegnare a reparti non immediatamente coinvolti nelle missioni all’estero, ma ai quali é stata generosamente concessa una via preferenziale per entrare nelle forze dell’ordine al termine del servizio.
Gli oltre 27 miliardi di spesa militare italiana per l’anno 2016 – l’1,5 del P.I.L. – sono in linea con la media N.A.T.O.; con il riarmo i conti pubblici delle nazioni sono destinati a peggiorare ove è più alta è l’incidenza di tali spese, la Grecia supera il 2,5% del P.I.L. e il Portogallo si avvicina al 2%. Le alternative e i programmi di riconversione sia industriale che occupazionale non sono mai state prese in considerazione; l’esercito – specie quello italiano – serve a mantenere gerarchie e schiere di ufficiali, la dismissione e l’alienazione del patrimonio immobiliare inutilizzato si sta inevitabilmente trasformando nell’ennesima speculazione edilizia. Oggi i militari vengono impiegati nelle città, circa 7.000 unità; ovviamente si tratta di una mera operazione ideologica, volta sia a appoggiare le logiche sicuritarie dei governi – che alimentano e soffiano sul fuoco di una spietata guerra contro poveri e immigrati -, sia a fare da presunto baluardo ai terrorismi, di qualunque tipo e genere. Con la crescente presenza di telecamere, di sorveglianze private e forze dell’ordine di varia natura, l’apparato repressivo e di controllo di rafforza e si espande.
9.153 i militari impiegati in 25 missioni estere – dati dello scorso 8 aprile – con mezzi aerei, terrestri e navali, gravano per oltre un miliardo di euro ogni anno sul bilancio dello Stato. In primis in Afganistan e Iraq dove la presenza militare italiana dura da ormai 15 anni. Al conto si aggiungono anche le spese per ulteriori interventi denominati di cooperazione, stabilizzazione e spionaggio in carico ai servizi segreti. La stessa presenza su internet – sistema che ha origini militari come molte altre tecnologie e innovazioni diventate poi di uso comune – considerata uno strumento strategico da impiegare per spionaggio e controspionaggio e per la sorveglianza di massa, non conosce tagli, ma continui investimenti. La contraddizione è palese tra queste spese e i tagli ai servizi sociali – sanità, scuola, pensioni, ecc. – per la popolazione, ma anche all’interno dello stesso esercito e dello Stato che abbandona a se stessi i suoi ex militari malati perché contaminati dall’uranio impoverito nei teatri di guerra.
GUERRA, PROFUGHI, IMMIGRAZIONE
La connessione di causa-effetto tra Armi, Guerra, Profughi e Immigrazione è abbastanza lampante: tra le cause prime dell’ immigrazione ci sono le armi e gli eserciti, senza le armi e gli eserciti che le usano vengono a cadere anche gli altri due aspetti, non c’è guerra e non ci sono né profughi né immigrazione e diventa più difficile imporre lo sfruttamento e la miseria. Non dimenticando mai che alla base di tutto ci sono gli interessi politici frutto della volontà di potenza degli Stati, grandi e piccoli, e quelli economici delle grandi Corporation, nel sostenere e fomentare dittature e guerre.
Dall’altro canto i media parlano solo degli effetti delle guerre e delle sopraffazioni: profughi e immigrazione, omettendo la verità sulle armi, su chi le produce e su chi le vende e a chi le vende, tacendo sul ruolo e sulle responsabilità politiche degli Stati e delle multinazionali nei conflitti.
INDUSTRIA BELLICA E LAVORO
La contraddizione tra occupazione lavorativa e produzione di armi è quanto mai attuale; in alcuni casi le preoccupazioni occupazionali si rivelano infondate, come per gli F35 , dove il mero assemblaggio di alcune parti del velivolo presso lo stabilimento di Cameri impiega pochi addetti inquadrati in buona parte come precari, alla faccia di una campagna governativa martellante che prometteva centinaia, se non migliaia di posti di lavoro. In altri casi la proposta della riconversione dell’industria bellica rappresenta ancora oggi il modello di riferimento per risolvere il problema dell’occupazione dei lavoratori impiegati.
CONCLUSIONE
Di fronte a questo quadro la mobilitazione e la risposta è tanto debole quanto necessaria. Fermare la corsa al riarmo, recuperare ai servizi sociali i soldi spesi per le armi e smontare l’assurdo logico che gli eserciti servono per portare la pace è quanto mai urgente.
Questo Convegno si propone di sviluppare un confronto sulla fase che stiamo vivendo e di promuovere adeguate iniziative sul terreno dell’antimilitarismo.
L’incaricat*
Qui il programma della giornata.
Qui il resoconto del convegno.